Ogni essere vivente è destinato a morire. Ma questa sorte, pur comune a tutti gli organismi biologici, per noi esseri umani assume un valore e un significato particolari.
Noi esseri umani sappiamo ricordare il passato e presagire il futuro, grazie alla memoria e all’immaginazione.
Certo, alcuni ricordi ci restano più impressi di altri e, spesso, rielaborandoli finiamo per alterarne il contenuto. E, allo stesso tempo, molte delle previsioni che facciamo, condizionate da desideri, speranze e paure, non si realizzano.
Nonostante questa irrimediabile fallacia, in ogni caso, quella di pensare e conoscere rimane una capacità eccezionale, frutto di milioni di anni d’evoluzione. Se di sera, mentre sei a passeggio con il tuo cane alzi lo sguardo al cielo sai che quelle minuscole luci appena visibili sono stelle antiche miliardi di anni, giganteschi ammassi sferici di materia incandescente. E puoi immaginarle bruciare e ruotare, sospese nel vuoto. Per il fedele compagno che ti trotterella a fianco non sono altro che punti luminosi.
Ciò che conosci dello spazio e dell’universo è poco più che un’astrazione, si basa sulle foto dei satelliti e su reminiscenze di studi scolastici. Pur non essendoci mai stato e senza bisogno di muovere un passo, però, con l’immaginazione puoi “visitare” quei mondi.
Ma questa capacità, che ci contraddistingue come specie, ha un prezzo: di saper immaginare, anche, la malattia e l’abbandono di coloro che amiamo. E la nostra stessa morte.
Ogni essere vivente è destinato a morire. Ma questa sorte, anche se comune a tutti gli organismi biologici, per noi umani assume un valore e un significato particolari.
A torto o a ragione, convinti che non potrebbero capirla e che ne sarebbero angosciati, facciamo il possibile per tenere i nostri figli al riparo da tutto ciò che riguarda la morte, eludendo le loro domande scomode o evitando di parlarne.
Per quanto ci proviamo, però, non possiamo impedire che ne facciano conoscenza. Una vera e propria ossessione affligge la nostra specie: riesci a ricordarti il titolo di una fiaba, di un film o di un romanzo in cui non vi sia la morte di almeno un personaggio? In pratica non c’è opera artistica che non accenni almeno all’argomento.
Sappiamo che un giorno moriremo, una pesante consapevolezza resa possibile, fra l’altro, da tre capacità esclusive della mente umana:
La paura di morire è il motore di gran parte delle grandi conquiste della civiltà umana. La medicina, per esempio, un tentativo di ostacolare la morte, di rimandarla. E la religione, una risposta al bisogno di spiegarla.
Non è facile afferrare il concetto dell’annullamento del sé. Come accettare che il nostro bagaglio di sentimenti, idee ed esperienze possa dissolversi per sempre? Che ciò che conosciamo e proviamo durante tutta una vita sia, in fondo, effimero?
Allora è naturale credere che la morte non sia la fine, ma una porta verso un nuovo inizio: una convinzione, questa, che forse accompagna l’Uomo da sempre o, per lo meno, da svariati millenni. Lo dimostrano i ritrovamenti europei e asiatici di tombe, risalenti al 7000 a.C. e oltre, riempite di ornamenti, di vasellame e di armi. Perfino di mobili e di cibo, come a ricreare un ambiente confortevole per il defunto.
Ma abbiamo prova di simili usanze anche in epoche successive. Fin da giovani, i faraoni egizi ordinavano la costruzione di immense piramidi in previsione, un giorno, di abitarvi.
A Lagash, un’antica città sumero-babilonese ubicata fra i fiumi Tigri ed Eufrate, le cui rovine oggi si trovano sul suolo iracheno, è stata rinvenuta una tomba risalente al 2500 a.C. insieme con la lista di suppellettili con le quali il defunto fu seppellito, fra i quali figuravano diversi abiti e un letto oltre, naturalmente, al cibo per sfamarlo: numerose giare di birra, cereali e centinaia di focacce di pane.
Queste usanze si sono tanto radicate nella cultura umana da essere sopravvissute fino ai giorni nostri, celandosi nel linguaggio, nei modi di dire. Non utilizziamo, ancora, l’espressione “eterna dimora”?
Anche le religioni “moderne” concepiscono una vita dopo la morte.
Per l’Induismo, per esempio, il corpo è il semplice contenitore dell’anima. Ciascuno, agendo, attira a sé un karma più o meno positivo andando incontro, dopo la morte, alla reincarnazione in un essere di ordine superiore o inferiore.
Secondo l’Islam la morte è uno spartiacque fra questa esistenza e quella ultraterrena. L’aldilà, sede della resurrezione sia spirituale, sia fisica, può essere un luogo di felicità o di punizioni, a seconda delle azioni compiute in vita.
Nel Cristianesimo, come nell’Islam, sono previsti un giudizio divino e una vita ultraterrena. La fede del cristiano è basata sulla morte e resurrezione di Gesù Cristo e sulla prospettiva del paradiso per chi si sia comportato secondo il suo insegnamento.
Al di là delle differenti teologie, ciò che accomuna queste grandi tradizioni spirituali è la stessa promessa, un messaggio di speranza. Che, pur morendo, non moriremo, che l’essenza di cui siamo fatti perdurerà. E così anche il lutto si fa più sopportabile. Chi amavamo e abbiamo perduto, non è perduto, la sua anima vive in un altro mondo, continua a esistere, in una forma libera dalle malattie e dalle sofferenze di questo mondo.
La consolazione per le perdite è una delle funzioni principali della fede e un motivo fondante di tutte le religioni. La scomparsa di una persona cara, infatti, è forse la prova più dura da superare. E complessa. La psichiatra svizzera Elisabeth Kübler Ross, nel 1970, ha descritto con mirabile lucidità le cinque fasi di cui l’esperienza del lutto si compone.
Se, da quanto detto finora, è inevitabile concludere che la consapevolezza della mortalità sia un fatto solo umano, è corretto sostenere che lo sia anche il lutto? Sembrerebbe di no, che altre specie animali provino dolore per le perdite.
Come noi, per esempio, il cane stabilisce solidi legami d’attaccamento. La scomparsa del padrone, allora, può causare sintomi molto simili a quelli tipici della depressione fra i quali l’inappetenza, l’apatia e la demotivazione a interagire, rappresentando un evento carico di significato: la privazione della protezione, delle cure, dell’affetto fino a quel momento ricevuti.
E i suoi effetti possono perdurare. Hachiko, un cane di razza Akita, per tutta la vita era uscito di casa, ogni sera, per raggiungere una stazione di Tokyo e accogliere il padrone al rientro dal lavoro. E continuò a farlo, per dieci anni, dopo la morte di quest’ultimo. Dalla ben nota vicenda è stato tratto l’omonimo film, nel 2009.
Sono numerosissime le storie di cani che, scomparso il padrone, vegliano sulla sua tomba come per continuare e sentirne la vicinanza. Ma il cane non è l’unico animale del quale sia stato studiato il lutto. Sono, in particolare, quelli che conducono una vita “sociale”, di gruppo, a soffrire delle perdite.
Delfini ed elefanti, per esempio. Questi ultimi sembrano svolgere vere e proprie cerimonie funebri, coprendo con foglie e rami il corpo del compagno dopo averlo toccato, a turno e con delicatezza, con la proboscide e con le zampe anteriori.
Quello di tumulare sotto le fronde è un comportamento che i pachidermi condividono con gli scimpanzé, i nostri vicini parenti, altra specie in grado di accorgersi della scomparsa di un conspecifico. Nel 2008, in Camerun, al Sanaga-Yong Chimpanzee Rescue Centre, i primati ospiti della struttura si radunarono attorno agli inservienti che trasportavano il corpo di Dorothy, una femmina di scimpanzé che per 40 anni aveva fatto parte del gruppo. Secondo le testimonianze, durante la sepoltura il silenzio era assoluto, evento inconsueto per queste creature sempre così rumorose. Una scena che ricordò ai presenti un funerale umano.
© Gabriele Calderone, riproduzione riservata.
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