Ogni lutto è doloroso, ma perdere qualcuno che hai visto nascere e crescere può cambiare alla radice la percezione della realtà. Niente sembra più lo stesso.
Non sappiamo né come, né quando. Ma, in fondo, siamo tutti consapevoli di essere precari in questo mondo e che potremmo perdere qualcuno che amiamo. L’ombra di questa verità aleggia nella mente di ciascuno di noi: l’invecchiamento e il tempo che passa sono lì a ricordarcelo.
Il lutto è un sentimento che sopraggiunge quando, da eventualità immaginata, una perdita diventa realtà ed è un’inevitabile implicazione dell’affetto e dell’attaccamento. Banale ma vero: soffriamo davvero solo per coloro ai quali eravamo legati. Altrimenti, è più corretto parlare di dispiacere, al massimo di dolore.
Come reagisci nelle difficoltà? Sei incline a incupirti? Ai sensi di colpa? A rinchiuderti in te stesso? Oppure sfoderi ottimismo, riesci a vedere il lato positivo, ti tieni occupato cercando di non pensare? Il tuo carattere non può che influenzare anche il modo in cui vivrai la perdita, quando verrà il momento di affrontarne una.
Il lutto è un’esperienza emotiva davvero complessa: in sé racchiude la tristezza, l’abbandono, la solitudine, lo smarrimento, a volte la disperazione. Spesso vi si ritrovano mescolati sentimenti contraddittori. Immagina come si possa sentire chi prova sollievo e, assieme, malinconia perdendo un proprio caro dopo una lunga malattia. Oppure quanto sia difficile convivere con la rabbia e, allo stesso tempo, con i rimpianti verso qualcuno con il quale vi era un rapporto conflittuale.
Un grave lutto presuppone il venir meno di piccoli gesti quotidiani e abitudini condivise, ma non solo. Anche di un progetto di vita. Superarlo significa, almeno un po’, reinventarsi, nonostante lo sforzo sembri oltremodo faticoso, addirittura inutile.
La maggior parte delle perdite seguono un corso prevedibile, naturale. Questo le rende accettabili: ci si aspetta di perdere una madre o un padre anziani. Quando ciò accade, oltretutto, di solito il dolore è mitigato da un partner, da bambini o da ragazzi ancora giovani da accudire.
La realtà, tuttavia, non sempre considera i desideri e i bisogni umani. Accade ogni volta che un bambino resta orfano del genitore. Oppure quando un genitore seppellisce il figlio.
Ogni serio lutto è un “giro di boa”: da quel momento in poi ci sarà un “prima” e un “dopo”. Ma perdere qualcuno che hai visto nascere e crescere può cambiare alla radice la percezione della realtà. Niente sembra più lo stesso.
La morte di un figlio, in particolare, è un accadimento che può generare il lutto patologico, o “complicato”. Con questa espressione si indica una serie di sintomi, di alterazioni persistenti nel modo di sentire, di pensare e di comportarsi.
Il lutto patologico si esprime nel permanente calo dell’umore, nell’ansia o nell’anedonia, cioè l’incapacità di provare piacere, gioia, felicità. Oppure nell’ossessività sul tema della perdita, dell’autocritica, dei rimorsi, dei rimpianti. In pensieri di morte, azioni suicidarie o parasuicidarie. Nella rabbia, nell’isolamento dal prossimo, nell’indisponibilità o incapacità di accettarne il sostegno.
Semplificando, sono tre le forme possibili del lutto patologico del genitore. La prima nasconde il tentativo di evitare il dolore: è il caso delle mamme o dei papà che scivolano nel consumo eccessivo di alcol, nell’abuso di psicofarmaci o in altre condotte autolesive. La seconda è motivata dal tentativo di annullarlo: una mamma o un papà dilaniati dal rimorso di essere stati troppo severi con il figlio perduto possono decidere di diventare, troppo presto, di nuovo genitori, cadendo poi in un’eccessiva permissivività. Oppure sfogare la rabbia sui figli superstiti, divenendo esigenti e ipercritici. Il terzo tipo di lutto patologico, infine, è quello che si trasforma in un doloroso, eterno capitolo aperto. Si ritrova nei genitori che restano intrappolati nel passato. La profonda prostrazione è evidente in ogni loro gesto: nell’incapacità di dialogare sull’accaduto, nel rifiuto di donare gli oggetti del figlio, perfino di spostarli; nella completa rinuncia a pianificare il domani.
“Dove ho sbagliato?”. Qualsiasi sia la ragione della perdita, prima o poi ogni genitore in lutto si pone questa domanda. A volte, la risposta non ha nulla a che fare con la razionalità. Una mamma, un papà, si sentono responsabili della sicurezza e del benessere del figlio. La sua morte ne mette in discussione l’operato.
Il senso di colpa del genitore in lutto può assumere quattro diverse forme.
1 Il senso di colpa legato “al ruolo di genitore”. Di fronte a un evento tanto intenso come la morte di un figlio è comprensibile che si vada a caccia del responsabile: si cerca una spiegazione per venire a capo di un dolore che appare invincibile. A volte, il diretto interessato coltiva la convinzione di avere avuto un ruolo nel fatto. Ciò accade in particolare quando la scomparsa del figlio si verifica in modo violento o improvviso. Se, per esempio, la causa è un incidente stradale, il genitore può ossessionarsi con il pensiero di avergli permesso di uscire. Se è una malattia, può esservi il rimorso di non non aver fatto il possibile per trovare la migliore cura o per non aver agito con sufficiente celerità. Se la morte è avvenuta per suicidio il genitore può colpevolizzarsi per non essersi accorto della sofferenza del figlio o, addirittura, credere di esserne l’artefice: “Ero troppo duro con lui”; “Non l’ho capito”; “Non gli ero vicino”. Una sorte simile capita ai papà e alle mamme di chi ha imboccato cattive strade. Queste persone sono perseguitate dai rimorsi: “Non l’ho cresciuto in grado di evitare gli errori”; “Non gli ho insegnato la differenza fra il bene e il male”; “Non ho saputo renderlo capace di difendersi”.
2 Il senso di colpa “del sopravvissuto”. La perdita di un figlio infrange un luogo comune sul naturale ordine delle cose: che siano i giovani a dover seppellire i più vecchi. Il senso di colpa del genitore privato del figlio, allora, può legarsi al fatto stesso di essere vivo, di avere ancora tempo davanti a sé. Così, tornare alla normale quotidianità sembra un sacrilegio, una mancanza di rispetto alla memoria di chi, suo malgrado, non può farlo. Questo stato d’animo è analogo a quello provato da chi si salva da stragi, attentati o disastri: è la cosiddetta “sindrome del sopravvissuto”. La domanda è: “Perché, proprio io, sono stato risparmiato?”. Il genitore in lutto può essere ancora più perentorio: “Sarebbe stato meglio che a morire fossi io”.
3 Il senso di colpa “morale o religioso”. Un lutto doloroso induce a cercare risposte. L’idea, purtroppo illusoria, è che trovarle porterà pace. Vi sono circostanze in cui il genitore, più o meno razionalmente, si convince che vi siano responsabili diretti. La fidanzata del figlio, che non gli ha impedito di guidare nonostante avesse bevuto; oppure gli amici, che lo hanno introdotto a cattive compagnie. O i medici, che non hanno capito la gravità della sua condizione, sottovalutandone i sintomi. Ma la spiegazione può anche essere morale o addirittura spirituale. Accade, come prevedibile, a chi crede in una realtà trascendente. A volte, le persone religiose vivono la morte del figlio come una sorta di punizione, la conseguenza dell’aver violato leggi morali o comandamenti, il risultato delle proprie condotte. Un castigo divino.
4 Il senso di colpa “legato al dolore”. Questo tipo di senso di colpa riguarda la percezione o l’espressione esteriore del dolore. Si pensa che la morte di un figlio sia un evento insopportabile, che cambia la vita per sempre. Purtroppo, spesso è così. Allora, un genitore potrebbe sentirsi in colpa convincendosi di non provare abbastanza dolore o di non dimostrarlo nel modo giusto. Questo sentimento è tipico di chi ha idee rigide su come ci si debba comportare in talune circostanze. Potrebbe essere il caso di un papà, in lutto per il figlio, tormentato dal rimorso di non soffrire abbastanza accorgendosi di conservare, nonostante il dolore, la spinta ad andare avanti. L’autobiasimo potrebbe manifestarsi con quella che, per un genitore, è l’accusa più grave: “In fondo, è perché non mi importa”.
© Gabriele Calderone, riproduzione riservata.
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