Alla base della paura dell’abbandono, in genere, c’è la convinzione che le relazioni siano qualcosa di precario. A questo modo di sentire possono aver contribuito modelli genitoriali inaffidabili o esperienze precoci d'abbandono.
La capacità degli esseri umani di stabilire relazioni è molto superiore a quella di tutte le altre specie, anche le più sociali. Questa straordinaria dote, che nel corso dell’evoluzione ci ha consentito, cooperando fra noi, di ottenere la maggior parte dei risultati, si basa sull’istinto di creare solidi legami d’attaccamento. Il primo e principale legame d’attaccamento è quello nei confronti della madre o, più generalmente, di chi si prende cura di noi nei primi anni di vita, il cosiddetto caregiver.
Quando un bambino in tenera età subisce un distacco dalla propria figura di riferimento spesso mostra una reazione d’ansia e la volontà di recuperarne la vicinanza. Questo insieme di risposte, psicologiche e comportamentali, è proprio dovuto alla percezione che il legame d’attaccamento si è interrotto. In un certo senso, la natura ci ha dato la “capacità” di soffrire per il distacco per motivarci a ricercare la vicinanza del caregiver e, quindi, aumentare le probabilità di sopravvivere. Non bisogna scordare, infatti, che inizialmente la nostra sopravvivenza dipende in tutto e per tutto dalle cure degli adulti e che la nostra specie è quella in cui i piccoli hanno il periodo più lungo di dipendenza dagli adulti prima di essere in grado di prendersi cura di sé. Questo periodo, che negli altri mammiferi è limitato ai primi mesi o anni di vita, nell’Uomo può protrarsi, per varie ragioni, fino all’adolescenza.
Soffrire per il distacco dalle proprie figure di riferimento, quindi, è una reazione innata di tutti i mammiferi e in particolare dell’essere umano. Con la crescita, inoltre, sviluppiamo l’abilità di stabilire profonde relazioni affettive anche con persone diverse dai genitori. Prima d’amicizia e poi, con l’adolescenza, sentimentali. E’ questo, infatti, il periodo delle prime storie d’amore.
Il senso d’abbandono provato quando sentivamo di non avere a disposizione il caregiver è in qualche modo simile a quello che, da adulti, sentiamo nel caso in cui termini un legame stretto. Ciò accade perché siamo istintivamente predisposti a percepire l’interruzione dei legami affettivi come eventi negativi e pericolosi.
Il senso d’abbandono, quindi, è un sentimento del tutto naturale. Nonostante ciò, alcuni lo sentono più di altri o sono portati a sentirsi abbandonati anche quando non lo sono. Per quale ragione? Per rispondere è necessario considerare, innanzitutto, le esperienze d’attaccamento in infanzia e adolescenza.
Sono tre i fattori che spiegano le differenze soggettive nel percepire l’abbandono. Sono il fattore temperamentale, il fattore famigliare e quello psicologico.
1 Il temperamento, che nel linguaggio comune è detto “carattere”, è prevalentemente innato. Ogni genitore sa che, già alla nascita, il bambino ha un accenno di carattere ben formato. Alcuni bambini si mostrano più irritabili, altri più pacati; alcuni appaiono passivi, altri più propositivi. Alcuni sembrano più ricettivi di altri alla serenità o alla mancanza di serenità famigliare. Certi lati del temperamento possono portare a sviluppare maggiore sensibilità all’abbandono o a percepire il distacco in modo più intenso. Come sarà facile intuire, i bambini più emotivi e ansiosi sono quelli più esposti allo sviluppo della paura dell’abbandono.
2 Il ruolo del temperamento, tuttavia, non dovrebbe essere sopravvalutato. Ogni bambino, infatti, dal primo giorno di vita in poi sviluppa un rapporto con le figure di riferimento presenti in famiglia e, in base ad esso, “costruisce” il proprio modello di relazione. Ciascuno di noi, cioè, si forma un modello di relazione sulla base di quella che ha avuto con le proprie figure di riferimento e, in base a ciò, avrà maggiore o minore fiducia nelle relazioni che instaurerà da adulto. Se chi ha il compito di accudire, proteggere e amare agisce invece in modo freddo, aggressivo, ansiogeno, o oscilla in modo altalenante fra buono e cattivo accudimento, è probabile che il bambino sviluppi una percezione d’inaffidabilità e instabilità delle figure di riferimento. Tale percezione può generalizzarsi e mantenersi in età adulta, producendo la convinzione che ogni relazione sia destinata a finire e che, prima o poi, si sarà abbandonati.
3 Il terzo fattore è psicologico e riguarda il modo in cui il bambino interpreta gli atti degli adulti e regola le emozioni che ne conseguono. Si osserva, infatti che, a parità di atteggiamenti genitoriali, alcuni bambini tendono, più di altri, a darne un’interpretazione negativa. Il significato attribuito al comportamento del genitore influenzerà le convinzioni del bambino sulla relazione con il proprio caregiver e su quanto quest’ultimo si interessi e si prenda cura di lui. Ciò che rende estremamente complesso il mestiere di genitore è proprio il compito di cogliere l’aspetto soggettivo del temperamento e della psicologia del figlio. In effetti, fermi restando i bisogni universali (ricevere cure, affetto e limiti funzionali) non esiste un modo in assoluto giusto di crescere un figlio. E’ giusto quel modo che, il più possibile, è tarato sui suoi bisogni, sul temperamento e sul suo modo di interpretare gli eventi. Ciò che si rivela efficace su un bambino, infatti, può avere un effetto ben diverso su un altro.
Per qualsiasi ragione si sia sviluppato il senso di abbandono, chiunque lo provi sa che, anche da adulti, è un sentimento difficile da gestire perché porta a non fidarsi nelle relazioni d’amore e a percepire il partner poco coinvolto o poco presente anche quando ciò non è vero. In genere, il senso d’abbandono si esprime con ansia riguardo al futuro del rapporto e alle intenzioni del partner. Le persone con la paura dell’abbandono sono portate a chiedersi:
© Gabriele Calderone, riproduzione riservata.
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