Le preoccupazioni continue ed eccessive sono uno dei sintomi del Disturbo d'Ansia Generalizzato. Per superarle occorre sviluppare un diverso approccio ai propri pensieri. Scopri come il nostro Studio affronta questo disturbo.
Preoccuparsi significa pensare al futuro considerandone solo, o quasi, gli aspetti negativi. Le persone che amo mi lasceranno? Mi ammalerò? Sarò licenziato? I miei risparmi sarebbero sufficienti in caso di bisogno? Chi soffre d’ansia per via del rimuginio sa bene, però, che l’aspetto peggiore non sono le preoccupazioni in sé, quanto il fatto che sembrino incontrollabili.
Molti di coloro che passano il loro tempo a rimuginare soddisfano i criteri diagnostici per il Disturbo d’Ansia Generalizzato (DAG). Questa condizione, ancora oggi sottovalutata e quindi spesso non trattata nel modo corretto, è caratterizzata da preoccupazioni intense, tutti o quasi tutti i giorni, dall’incapacità di controllarle e da sintomi psicosomatici quali l’ansia, la facile affaticabilità, l’irrequietezza e l’irritabilità, la tensione muscolare e, di frequente, l’insonnia.
I diversi aspetti in comune con la Depressione possono rendere difficile, per il clinico, diagnosticare il Disturbo d’Ansia Generalizzato e coloro che ne soffrono, in media, tendono a chiedere assistenza più tardi rispetto a quanto non faccia chi soffre di altri disturbi.
Come già accennato, i sintomi principali del Disturbo d’Ansia Generalizzato sono le preoccupazioni eccessive e ricorrenti; è, quindi, un problema che riguarda il modo di pensare, ma non solo. Le persone abituate a preoccuparsi provano sentimenti di vulnerabilità, d’ansia e di tristezza. In aggiunta, mettono in atto comportamenti che, pur essendo efficaci per ottenere sollievo momentaneo dall’ansia, sul lungo termine la rinforzano e possono cronicizzarla.
Il nostro approccio, per questo motivo, considera allo stesso tempo gli aspetti cognitivi, emotivi e comportamentali del problema, che di seguito saranno spiegati in quest’ordine.
Nel Disturbo d’Ansia Generalizzato le preoccupazioni si avvicendano, come anelli di una catena. Ciascuna dura qualche giorno o settimana, poi è sostituita da altre, poi da altre ancora e, infine, ricompare. Sembra quindi che chi soffre di questo problema abbia più ansia, più pensieri e meno capacità di gestirli della norma.
A tutti capita di avere preoccupazioni sul proprio lavoro, sulla salute o di pensare con apprensione a eventualità future. Perché, allora, solo alcuni finiscono per esserne travolti? Per comprenderlo occorre introdurre il concetto di metacognizione.
Le metacognizioni sono convinzioni automatiche sui pensieri. Ciascuno di noi le possiede ma alcuni ne hanno di disfunzionali. “Se penso a ciò che mi preoccupa, posso trovare una soluzione” è un esempio di metacognizione che consiste nella convinzione che preoccuparsi sia utile per risolvere i problemi. Di seguito sono elencate le metacognizioni più tipiche nel Disturbo d’Ansia Generalizzato.
Chi ha l’abitudine di preoccuparsi può considerare giuste molte delle precedenti metacognizioni. E’ possibile, infatti, che abbia cercato più volte di controllare i propri pensieri senza riuscirvi e, perciò, si sia fatto l’idea che essi siano incontrollabili. Allo stesso modo, può essergli capitato qualcosa di negativo senza che lo avesse previsto e, di conseguenza, essersi convinto che sia da incoscienti non preoccuparsi del futuro.
In realtà, tutte le precedenti metacognizioni sono irrazionali, perché estreme o non veritiere. “Smettere di preoccuparsi è impossibile”, per esempio, è una convinzione irrealistica. Tutti i pensieri, infatti, hanno un margine di controllabilità che dipende anche e soprattutto dagli strumenti cognitivi ed emotivi che si impiegano.
Maggiore è il numero di metacognizioni disfunzionali, più probabili saranno le preoccupazioni. Non è il contenuto della preoccupazione a renderla incontrollabile, ma le azioni cognitive che utilizziamo per gestirla. Pensare che preoccuparsi sia utile non può che produrre l’intensificazione delle preoccupazioni. Pensare che preoccuparsi sia inevitabile non può che portare ad astenersi dall’esercitare quel giusto controllo che, invece, sarebbe auspicabile.
Da numerose ricerche risulta che più dell’80% delle preoccupazioni di coloro che soffre d’ansia generalizzata poi non accadono, ma non è questo il punto visto che non è tanto il loro verificarsi a rovinare le giornate, quanto il fatto di pensarci continuamente. Perciò, non è sulla sconferma della probabilità del loro verificarsi che si concentra il trattamento anche perché, ammesso che ciò funzioni, non impedirebbe il nascere di altre preoccupazioni. Invece, lavorare in collaborazione con il paziente sul cambiamento del suo stile cognitivo toglie “nutrimento” a tutte le preoccupazioni perché è ciò che ne sta alla base.
Questo obiettivo si persegue per mezzo dei cosiddetti esperimenti metacognitivi e migliorando il controllo sull’attenzione, spesso carente in chi rimugina.
Il sintomo più comune dei problemi d’attenzione è la facile distraibilità, la difficoltà a restare concentrati nelle conversazioni o mentre si è impegnati in attività quali la lettura o la guida. Fondamentale è migliorare la padronanza della propria attenzione perché, solo così, è possibile spostarla dai pensieri negativi a stimoli neutri, presupposto indispensabile per interrompere le preoccupazioni e, quindi, l’ansia. Questo obiettivo si raggiunge con l’applicazione del Training Attentivo di Wells.
Quasi mai chi è abituato a preoccuparsi si rivolge allo psicoterapeuta a causa dei pensieri che pur gli occupano la giornata. Più spesso, invece, il paziente chiede aiuto per via degli effetti secondari che rimuginare produce: l’affaticabilità, la tensione, l’ansia e, non di rado, gli attacchi di panico.
Da un punto di vista emotivo, nascosto dietro il rimuginio c’è il senso di vulnerabilità. Con questo termine si intende la percezione di non essere abbastanza forti, sicuri o protetti per difendersi dai pericoli o evitarli ed è, questo, il sentimento da cui scaturisce l’ansia e la convinzione che qualcosa di brutto sia sempre sul punto di accadere. Sulla sensazione di vulnerabilità si innesta la rimuginazione, la quale finisce per rinforzare il senso di vulnerabilità.
Ciascuno di noi è diverso riguardo a ciò che ci fa sentire vulnerabili. Chi vede il denaro come il mezzo per raggiungere la sicurezza può credere di non averne mai abbastanza. Chi vede i rapporti affettivi indispensabili per sentirsi protetto può inorridire all’idea di essere lasciato. Chi vede il proprio lavoro come unico strumento di autorealizzazione può sentirsi smarrito all’idea di perderlo. Nel Disturbo d’Ansia Generalizzato la vulnerabilità è basata su molti o tutti i temi precedenti e si collega spesso a due altri aspetti, il senso di colpa e di responsabilità.
Chi soffre di ansia generalizzata tende ad avere uno spiccato senso di colpa e a sentirsi responsabile per sé e per gli altri, anche quando le circostanze non lo giustificano. La cosiddetta inflated responsability (responsabilità inflazionata), tipica del Disturbo Ossessivo Compulsivo, è una caratteristica comune anche di chi è abituato a preoccuparsi.
In questo senso, il rimuginio tipico di questi pazienti può essere considerato un mezzo per evitare il contatto con il lato emotivo delle preoccupazioni. In altre parole, rimuginare consente di non entrare in contatto con il senso di vulnerabilità, di perdita e di colpa. Purtroppo, però, questa strategia è disfunzionale perché, oltre a provocare forte ansia, impedisce l’elaborazione di tali sentimenti e, quindi, di superarli. L’obiettivo del trattamento è rimanere in contatto con essi senza innescare il rimuginio e prevede l’apprendimento delle capacità di pensare per immagini e di tollerare l’incertezza, spesso carenti.
Accettare l’eventualità di una perdita non significa esserne indifferenti o mettersi, in modo irresponsabile, nella condizione di subirla ma, anzi, consente di rimanere “agganciati” al presente, di godere di ciò che, al momento, non abbiamo perso ed è nella nostra disponibilità. Chi teme di perdere qualcosa o è sempre preoccupato del momento in cui accadrà è come se la perdesse ogni giorno.
Da quanto fin qui detto risulterà chiaro che la base dell’ansia generalizzata sia la perdita, la vulnerabilità e l’incertezza e che per impedire la comparsa di questi sentimenti si sviluppa l’abitudine al rimuginio.
Ma rimuginare non è l’unica azione possibile. Tante altre, infatti, hanno lo stesso scopo e sono riferibili alla categoria degli evitamenti e a quella dei comportamenti protettivi.
Un evitamento è un’azione messa in atto per evitare che l’ansia, collegata alla perdita, si inneschi. Di seguito alcuni esempi.
Un comportamento protettivo è un’azione attuata per disinnescare l’ansia prodotta dalla percezione di una possibile perdita. Riprendiamo i casi precedenti e vediamo alcuni esempi.
Difendersi dalle proprie paure con evitamenti e comportamenti protettivi è un istinto naturale. Entrambi, infatti, sul breve termine hanno un potente effetto ansiolitico. Un uomo spaventato per l’idea che la moglie sia rimasta coinvolta in un incidente stradale, nel momento in cui la sente al telefono proverà una forte e benefica scarica tensiva.
A prima vista, quindi, queste azioni sembrano una buona soluzione, ma purtroppo lo sono per poco. Abituato alla ricerca di rassicurazioni, infatti, l’uomo del nostro esempio per essere tranquillo avrà sempre bisogno di accertarsi che la moglie stia bene. Non avendo elaborato la paura della perdita, la sua tranquillità dipenderà dal fatto che la moglie sia reperibile. Nel migliore dei casi l’ansia è abbattuta da un agente esterno, nel peggiore sale ancor di più, per esempio qualora la rassicurazione non arrivi. Cosa accadrebbe se la donna, per impegni o per distrazione, non rispondesse alle chiamate?
Che cosa accadrebbe a un uomo che teme di non avere mai abbastanza denaro se non riuscisse a evitare una grossa spesa o a guadagnare a sufficienza? Per questo motivo è importante non rispondere con comportamenti protettivi o d’evitamento alle proprie paure.
L’obiettivo di quest’ultima parte del trattamento ha lo scopo di sviluppare l’abilità di esporsi, in modo graduale, alle situazioni che innescano il senso di perdita e di vulnerabilità, senza attuare comportamenti o strategie che impediscano l’elaborazione emotiva delle proprie paure e, quindi, il loro superamento. A questo scopo si utilizza l’esposizione graduale in immaginazione e in vivo, una tecnica che prevede la scomposizione delle situazioni temute in unità semplici e l’esposizione a ciascuna di esse, a partire da quella che provoca minor ansia. Una spiegazione dettagliata di questo metodo si trova nella pagina dedicata al trattamento delle fobie.
© Gabriele Calderone, riproduzione riservata.
leggi altro su