Parteggiare per coloro che sentiamo affini è naturale, come dimostra lo storico esperimento del Robbers Cave State Park. Ma quali sono le conseguenze di questo istinto?
Come se fosse un immenso mosaico troppo complesso da capire, scomponiamo la realtà in un’infinità di pezzetti ben definiti: le categorie. Così distinguiamo egoisti e altruisti, simpatici e antipatici. Etichettiamo i comportamenti come giusti o sbagliati, le idee come sensate o insensate.
Categorizzare è un’operazione con una funzione evidente. Permette di attribuire, con rapidità, qualità positive e negative agli oggetti, alle persone, agli eventi. I vantaggi?
Immagina la lontana epoca in cui la specie Homo muoveva i primi passi. A quei tempi savane e foreste erano popolate da terribili carnivori. Non solo. Sprovvisti delle tecniche di allevamento del bestiame e di coltivazione della terra quei gruppetti umani, girovagando alla continua ricerca di cibo, forse non di rado si imbattevano in altre comunità incattivite dalla medesima penuria di risorse.
Un mondo pericoloso, nel quale accorgersi dei pericoli con rapidità determinava, di fatto, la differenza fra vivere e morire.
Ragionare per categorie rende, appunto, veloci nell’agire. Ma porta a conclusioni accurate?
Bambino, ragazzo, adulto, anziano, queste quattro categorie sono un buon esempio di quanto il pensiero binario sia ingannevole. Un venticinquenne: probabilmente diresti che è un ragazzo. E un trentacinquenne? Un adulto. Ma sai indicare l’esatto momento in cui si smette di essere ragazzi e si diventa adulti? A 32 anni? A 27? La realtà non è scomponibile in parti.
Fare come se lo fosse, però, semplifica l’analisi della cascata ininterrotta di stimoli sensoriali ai quali sei sottoposto di continuo. Così, se accanto a un tavolo noti un oggetto con quattro gambe e uno schienale in un battibaleno pensi: “sedia”. E sai che puoi usarla per riposarti.
Ragionare per categorie è riduttivo e non rende giustizia alla complessità della realtà, ma funziona, tanto che noi uomini moderni adoperiamo ancora questa stessa “scorciatoia”. Sono ben poche le affermazioni che non contengano una valutazione binaria: “Ho comprato una bella auto”; “Il mio collega è un tipo disponibile”; “Ho avuto una mattinata tremenda”; “Stanotte ho fatto uno strano sogno”.
Quando si catalogano individui in base al sesso, all’età, all’etnia, alla religione, allo status economico, alla professione, si parla di categorizzazione sociale. Già a metà del Novecento Tajfel, studioso dell’argomento, sosteneva che tutti fossimo predisposti a classificare in base a tali qualità e che, anzi, l’identità di ciascuno vi si fondasse.
In effetti, se ti domandassero “chi sei?” forse risponderesti parlando del luogo e della famiglia da cui provieni, della professione che svolgi, della tua nazionalità. In un modo o nell’altro definiresti la tua identità in base all’appartenenza a vari “gruppi”. Categorie.
Sentire di appartenere a un “gruppo” determina alcune conseguenze rilevanti.
Innanzitutto ti induce a sovrastimare i tratti che credi ti accomunino agli altri componenti del gruppo. Cioè, a cogliere le somiglianze, anche se minime, e a trascurare le differenze, anche se evidenti.
Un italiano è portato a sentirsi affine per abitudini, valori, atteggiamenti, più a un connazionale che a un tedesco o a un giapponese.
Di contro, si dà per scontata la propria diversità dagli appartenenti ad altri gruppi perfino nonostante dati di fatto che, se considerati, smentirebbero la tesi.
Risultato: ci si immedesima nel proprio gruppo, lo si favorisce a discapito degli altri.
Per distinguere fra chi consideriamo “dentro” e “fuori” il gruppo d’appartenenza si utilizzano le espressioni ingroup e outgroup. L’ingroup per eccellenza è la famiglia: la difenderemmo a ogni costo, perfino nel torto. Outgroup, invece, è tutto ciò che non conosci, che senti estraneo, che ha interessi che reputi in conflitto con i tuoi. Outgroup sono le persone nelle auto davanti, in un ingorgo stradale; è il commerciante che fa concorrenza alla tua attività; è il collega di lavoro candidato, contro di te, alla promozione; è il professore di matematica che, a fine anno, deciderà del destino di tuo figlio.
Sebbene naturale, purtroppo, la distinzione fra ingroup e outgroup genera le dinamiche responsabili dell’ostilità, dei pregiudizi, delle discriminazioni, come un brillante esperimento dimostrò tanto tempo fa.
Nel 1954, Muzafer e Carolyn Sherif, coniugi ed entrambi professori dell’Università dell’Oklahoma, insieme con altri tre ricercatori, Harvey, White e Hood organizzarono uno studio pionieristico che fece clamore e diede forte impulso ad altri studi sul tema.
L’esperimento, ambientato nel parco statale di Robbers Cave, mise in luce la facilità con cui può generarsi ostilità fra gruppi di individui ma fornì anche le “soluzioni” per evitare che ciò accada.
I ricercatori reclutarono 22 adolescenti maschi di età media di 11 anni. I ragazzi non si conoscevano, provenendo da diversi istituti scolastici dell’Oklahoma. Con estrazione casuale, poi, li divisero in due gruppi. L’esperimento, quindi, ebbe inizio.
Nella prima fase le due squadre di campeggiatori furono tenute separate, in modo che al loro interno potessero stabilirsi legami d’amicizia e gerarchie. Sarebbe nata simpatia e cooperazione fra individui che, fino a qualche giorno prima, erano stati perfetti estranei? Questo era il primo interrogativo al quale i ricercatori si proponevano di dare risposta. In effetti, dopo nemmeno una settimana i due gruppi manifestavano già una chiara identità e solidi legami.
Lo scopo della seconda fase era innescare l’antagonismo, per mezzo di prove a premi, per esempio gare sportive. Da subito le aquile e i serpenti, così si erano battezzate le due squadre, per il solo fatto di entrare in contatto e sapere che si sarebbero trovati in competizione iniziarono a mostrare rivalità, ben più di quanto i ricercatori stessi avessero previsto. Con l’inizio delle prove, poi, la situazione peggiorò. Si passò dallo scambio d’insulti alle “spedizioni punitive” nei reciproci accampamenti. Furono rubati o distrutti oggetti, vi fu perfino una rissa. A questo si era arrivati: i campeggiatori si rifiutavano di condividere la sala mensa all’ora di pranzo.
Lo scopo della terza fase, infine, era verificare se l’ostilità verso l’outgroup fosse davvero inevitabile o se, invece, a certe condizioni potesse essere placata. Sherif e collaboratori posero le aquile e i serpenti in contatto senza più stimolare competizione. Li fecero assistere, per esempio, ai fuochi artificiali del 4 Luglio, la festa statunitense dell’Indipendenza. Non funzionò. Anzi, i ragazzi si lasciarono andare ad altre intemperanze.
I ricercatori, allora, fecero in modo di stimolare collaborazione. Danneggiarono il sistema idrico del campo così che l’erogazione dell’acqua si interrompesse. Poi, convinsero i ragazzi che il problema fosse stato provocato da ignoti vandali. La squadra riuscì a trovare il guasto, un’ostruzione nello sbocco di una cisterna. La riparazione, ideata e attuata da tutti i giovani assieme, contribuì a calmare gli animi.
Sherif e collaboratori continuarono sulla stessa strada, ideando situazioni che esigessero forza lavoro del quale nessuno dei gruppi, da solo, disponeva. Per esempio spostare un camion impantanato.
Alla fine della terza fase le ostilità erano appianate, tanto che i piccoli campeggiatori chiesero di utilizzare lo stesso pullman per tornare a casa. In una sosta, i serpenti pagarono perfino da bere alle aquile con il denaro vinto in una delle gare a premi.
Studi ben condotti, come quello del Robbers Cave State Park, stimolano una migliore comprensione della natura umana e ci “parlano”. Dall’esperimento di Robbers Cave si può concludere che:
© Gabriele Calderone, riproduzione riservata.
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