Credere in se stessi ha a che fare, soprattutto, con il modo in cui si cresce. Sono le esperienze che hai fatto ad aver forgiato il tuo senso di autoefficacia.
Ti trovi alla festa di laurea di un vecchio amico e, a quanto pare, non conosci nessuno degli invitati.
Ti sei trasferito in una nuova città e, spaesato, ti accorgi di non sapere nemmeno dove sia il panettiere più vicino.
Seduta a uno dei tavoli del locale in cui stai passando la serata, noti una persona: è attraente, vorresti avvicinarla e presentarti.
Come ti sentiresti in circostanze simili?
Credere nei propri mezzi non solo spinge all’azione, ma ne condiziona gli esiti: se agisci in modo convinto e propositivo è più probabile che tu riesca in ciò che ti sei prefissato. Ecco perché chi è sicuro di sé, spesso, ha successo. Come recita il detto: piove sempre sul bagnato.
Certi si sentono più sicuri di altri, è innegabile. Ma perché? Ci sono bambini che, fin dalla nascita, sembrano meno bisognosi della costante presenza degli adulti e altri che, invece, manifestano un maggior bisogno di contatto fisico e attenzioni, timore di fronte al distacco e alle novità. La fiducia nelle proprie capacità dipende anche dal temperamento con il quale si nasce.
Ma in buona parte sono le esperienze, e soprattutto quelle precoci, a fare la differenza.
I genitori che meglio svolgono il loro compito sostengono i figli senza eccedere nel proteggerli, li educano evitando di essere impositivi, li incoraggiano senza servirsi della critica o di inutili pressioni, mostrano loro un modello di relazione che non prevede passività né aggressività. Atteggiamenti che rendono probabile, nei piccoli, la formazione dell’autostima e del senso di autoefficacia.
L’autostima è una conseguenza del giudizio sul proprio valore. Chi ha buona autostima sente di non dover essere diverso da ciò che è, per essere amato o apprezzato. L’autoefficacia, invece, è la percezione di essere in grado di far fronte alle nuove sfide, di adattarsi, di superare le difficoltà.
Autostima e autoefficacia sono due facce della stessa medaglia. Percepirsi competenti aiuta a sentirsi di valore. Sentirsi di valore rende fiduciosi di farcela. Nella scuola e nel lavoro, nelle relazioni, nel prendersi cura di sé.
Nello studio, in particolare, è evidente quanto l’opinione di sé sia fondamentale. Se non credi nelle tue capacità ti sarai accorto di quanto sia difficile trovare la motivazione per aprire i libri e, al contrario, di quanto sia facile perdersi in distrazioni. Ogni riga da studiare può sembrarti un’impresa, fare assenze o procrastinare gli esami l’unica strada per evitare brutti voti.
Ma gli effetti di una scarsa autoefficacia possono manifestarsi anche più in là, nel lavoro. Condizionato dalle insicurezze, forse, fatichi il doppio dei colleghi per ottenere i medesimi risultati. L’eventualità di fare carriera, per te, è fonte di stress e, per paura di fallire, scansi le nuove sfide. Pensi:
La relazione che intercorre fra autostima e autoefficacia scolastico-professionale è complessa. Una bassa autostima può demotivare, rendere inermi o, al contrario, spingere a fare meglio: a volte, diventare studenti meritevoli, i “primi della classe” oppure eccellere nella professione sono modi per sentirsi di valore. Anche se il prezzo da pagare è quasi sempre alto. Nonostante i successi, il senso d’inadeguatezza non passa davvero; le competenze acquisite non sembrano mai abbastanza; i giudizi negativi su di sé restano in agguato. Al minimo fallimento tutto torna in discussione.
Non credi nelle tue capacità? Forse da bambino hai adottato un metodo di studio inefficace e quei primi cattivi risultati, da allora, non hanno mai smesso di condizionarti. Oppure, in classe si respirava un clima di continua critica e di aspra competitività, che ti ha segnato. O, magari, i tuoi genitori non sono riusciti ad abituarti alla disciplina e alla regolarità lasciandoti solo o seguendoti con apprensione, svolgendo i compiti al posto tuo, sostituendosi a te nello studio.
Interazioni complesse prendono forma già nel periodo dell’asilo nido e della scuola materna, contesti nei quali il bambino inizia a imparare le basilari regole della convivenza e, soprattutto, a impratichirsi nelle cosiddette abilità sociali.
In seguito, le relazioni assumono un ruolo ancor più centrale. L’adolescente vive di relazioni. Se da giovane non credevi nelle tue abilità sociali, forse, consideravi i coetanei tutti più integrati e competenti di te, mentre l’ansia di dire o fare qualcosa di inopportuno ed essere giudicato ti bloccava. E nel rapporto con l’altro sesso? Ti percepivi poco attraente, impacciato, eri certo di non saperti comportare, che ci fossero “trucchi” dei quali eri all’oscuro?
Uno scarso senso di autoefficacia nelle relazioni sociali potrebbe complicarti la vita anche ora che sei adulto. Magari pensi:
Avere una buona autostima, valutarsi “giusti” per ciò che si è, favorisce quella tranquillità che consente di comportarsi con spontaneità: è un antistress naturale, un toccasana per l’autoefficacia perché facilità l’acquisizione di buone abilità sociali. La bassa autostima può, invece, produrre l’esito opposto.
Ma le cause della scarsa autoefficacia nelle relazioni possono essere anche altre. Il senso di inferiorità, di esclusione e di emarginazione, per esempio, a volte sono il risultato di episodi di bullismo, di ripetute prese in giro o dell’emarginazione da parte di coetanei.
Come sempre, poi, conta il contesto famigliare, nel quale si apprendono le basi indispensabili per fare relazione. Nell’interazione con i genitori il bambino impara a collaborare, a considerare i bisogni altrui e ad affermare i propri, a rispettare le regole, a gestire le liti e le critiche; acquisisce l’empatia, la sensibilità necessaria per immedesimarsi nello stato emotivo di chi gli sta di fronte e comprenderlo.
L’atteggiamento genitoriale scostante, distaccato; oppure ipercritico e aggressivo; o, ancora, protettivo-ansioso. Questi modi d’accudire possono impedire lo sviluppo di una normale emotività, rendere difficile esprimersi, favorire il timore delle critiche e l’insofferenza ai giudizi.
Al cibo, alla protezione, alla salute e all’igiene dei piccoli provvedono gli adulti, che di solito continuano a farlo fino al termine dell’adolescenza. In nessun’altra specie i cuccioli restano così a lungo dipendenti dalle cure parentali.
L’età adulta, da un punto di vista biologico, inizia con la pubertà. Ma diventare adulti è molto più che essere capaci di procreare. Significa riuscire a vivere del proprio lavoro, saper fare scelte buone e autonome, prendersi cura degli altri.
Si diventa adulti con gradualità. In fondo è per questo che si insegna ai bambini a riordinare i giocattoli prima di cena, ad aiutare ad apparecchiare la tavola, a lavarsi i dentini dopo i pasti nonostante sia chiaro che queste, per loro, sono occupazioni davvero antipatiche.
Non ti senti autonomo? Forse fai fatica a prendere decisioni, a organizzarti, a rispettare gli impegni. Magari non hai mai imparato a cucinare, a stirare, a fare il bucato oppure fatichi a gestire i risparmi. Deleghi incombenze burocratiche, per esempio i pagamenti delle bollette e ti affidi al partner come se fosse un genitore. Pensi:
Fare il possibile per assicurare ai piccoli un ambiente confortevole è un istinto di quasi tutti i papà e le mamme. Ed è funzionale, a patto che non ostacoli l’indipendenza dei figli, che non li demotivi ad agire. Il compito principale del genitore consiste nell’insegnare loro una sana autonomia.
Spesso è l’eccessiva protettività a impedire che ciò avvenga. Ancor più se farcito da un atteggiamento ansioso, l’iperaccudimento può rendere passivi, convinti che le sfide siano insormontabili, indurre a credere di non poter fare da sé.
Ma questa sorta di dipendenza affettiva può anche essere causata da un atteggiamento genitoriale freddo, critico o negligente. L’incapacità di capire il figlio, di ascoltarlo o di guidarlo possono far sì che quest’ultimo sviluppi insicurezze e un senso di solitudine dai quali, da adulto, cercherà di proteggersi affidandosi agli altri.
© Gabriele Calderone, riproduzione riservata.
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